Uno dei temi principali della pittura di Maria Teresa De Zorzi, tra il 1974 e il 1979 circa, è stato quello delle tende. Certamente ha rappresentato uno dei punti cardine della sua evoluzione artistica ed esteica: attorno a quel riferimento iconografico, come per il famoso albero di Mondrian, si è svolto non solo il passaggio da una pittura en plein air, a una pittura di astrazione, ma si sono anche maturate definitivamente, e fatte consapevoli, le scelte poetiche e personali che erano presenti in nuce anche nei primi quadri. Che il tema delle tende avesse un suo contenuto “altro” rispetto all’evidenza decorativa del soggetto, è apparso chiaro a molti di coloro che hanno scritto sull’artista: a cominciare da Giulio Montenero, che nel 1981 parlava a questo proposito di sipari, di teatralità e persino di femminilità.
Tuttavia, anche alla luce del percorso successivo della De Zorzi, si è visto che quelle tende su cui così ansiosamente si posava la sua attenzione rappresentativa, erano importanti soprattutto per ciò che vi era immediatamente dietro, cioè la finestra.
La finestra è una classica metafora dell’occhio, dello strumento primario della visione: come questo è il tramite tra noi e il mondo esterno (non l’unico, ma certamente quello privilegiato per un pittore), così la finestra è il diaframma che mette in comunicazione un interno con un’esterno. Un quadro fondamentale di Balla, che è uno dei caposaldi del suo paesaggio al futurismo, è per l’appunto la finestra di Duesseldorf, una sorta di autoritratto “sé assente”, una finestra nitida, eseguita con quella tecnica divisionista che è la formalizzazione della scientificità della visione (e una tecnica analoga comparirà significativamente anche nei quadri successivi della De Zorzi, espressa a piccole taches ordinate), di fronte alla quale è posato un binocolo, altro strumento scientifico di visione; come a significare che il pittore è lì, sublimato in quegli elementi metaforici e oggettivi che permettono di indagare la realtà; e non a caso in questo periodo, a Dusseldorf, Balla sviluppo le sue compenetrazioni iridescenti, tra le prime composizioni astratte della cultura occidentale. Anche per Maria Teresa De Zorzi questa metafora è fondamentale per il suo passaggio all’astrazione.
Le prime opere dell’artista appartengono a un repertorio pittorico consueto: paesaggi, ritratti, nature morte, il cui dato essenziale risulta sempre la struttura dell’immagine, che costringe il colore in campiture nitide e prive di ombre, illuminate da una luce intellettuale. Il passaggio alle “tende” rappresenta dunque il banco di prova della volontà e dell’emozione dell’artista, alla ricerca di un linguaggio libero da quelle convenzioni tematiche iniziali.
Disegni geometrici ammorbiditi dalla sericità di un tessuto mosso dal vento iniziano a scomporsi, mentre gli orizzonti al di là della finestra vanno facendosi sempre più essenziali e allusivi. Alla fine degli anni Settanta, senza soluzione di continuità, paesaggio e tenda, occhio e realtà, esterno ed interno si compongono liberamente, giunti ad una essenzialità rigorosa ma vibrante. L’astrazione non trova infatti una nuova convenzione nella geometria, e neppure uno slancio romantico incontrollato nell’informale, ma una soluzione in cui il colore determina solidamente la propria necessità compositiva; una “régle qui corrige l’emotion”, ove l’esterno è trasfigurato in un solo colore vibrante e l’interno (la “tenda”) in bande di colore puro.
Se si dovesse trovare un riscontro culturale a una ricerca, pur così individuale, più recentemente e anche più calzante di Mondrian e dell’astrattismo degli anni Venti e Trenta, questo è certamente da leggersi nell’opera di cui artisti del gruppo italiano di Forma 1, piutosto che nelle ricerche dell’Optical-Art, cui talvolta Maria Teresa De Zorzi è stata avvicinata.
Nella concretezza dell’analisi luce-colore di Dorazio, nel rapporto tra segno e superficie della Accardi, si trovano per molti versi analoghi quei motivi di “esplorazione dello spazio” che la De Zorzi all’inizio degli anni Ottanta ha indicato come linea di ricerca professionale: dove spazio, luce, colore e segno sono fattori profondamente concatenati e necessari l’uno alla sussistenza degli altri. In quegli artisti è peraltro presente una caratteristica di fantasia, di abbandono lirico pur nel controllo formale, che è antica prerogativa italiana e che certo manca negli esperimenti optical più osservanti.
La maturità artistica della De Zorzi, pur senza nulla togliere alla freschezza e alla contenuta poesia delle sue prime opere, è raggiunta certamente con la sua produzione astratta: che registra continuamente gli stimoli e le suggestioni che le giungono dall’esterno (ad esempio le opere eseguite a New York, modulate sui ritmi della skyline cittadino) come dall’interno (evidente è il caso della recente serie delle “perturbazioni” in cui l’artista riprende quadri già dipinti imponendovi il segno di una psicologia sempre in movimento, che rifiuta l’opera d’arte come raggiungimento assoluto). Quella di Maria Teresa De Zorzi è la lenta progressione su un cammino di coscienza che porta con sé, come le pagine di un diario, scorie e scintille di un rovello intellettuale mai pago, sempre alla ricerca di possibili alternative e di nuovi orizzonti.
In questo senso vanno considerate le sue installazioni, concepite per spazi specifici di esposizione, ma anche il costante impegno di promotrice culturale che svolge in vari sensi: sia nella sua città, Udine, che in Italia e all’estero come parte di un gruppo di donne artiste in cui scopo è quello di affermare la propria individualità nella specificità femminile e nella dialettica del dibattito culturale contemporaneo.
Nella ricchezza e molteplicità spesso vuota dei linguaggi artistici attuali, la voce solista di Maria Teresa De Zorzi ha certo un suo ruolo di coerente ricerca e distillata qualità, un valore indubbio di testimonianza artistica tesa e appassionata che resisterà al tempo delle mode.
Roma, agosto 1989